IL CASO DEL MAESTRO DELL'ARENGO
Sull’arco trionfale della chiesa di Sant’Agostino a Rimini campeggiava il grandioso affresco del Giudizio Universale, poi staccato e ricomposto nel Palazzo dell’Arengo, nell’ampia sala dove si riuniva il consiglio della città, e ora conservato presso l’antico convento dei gesuiti, sede del Museo della Città. Delimitato dalla larga fascia con motivi geometrici e vegetali sul fondo rosso che correva sotto gli spioventi del tetto, il timpano comprende nella parte alta due schiere angeliche, a sinistra con palme e corone per premiare i beati, a destra con spade e lance per punire i dannati. Il centro doveva essere occupato dalla figura di Cristo, affiancato dalla Vergine e da san Giovanni Battista, nonché dagli apostoli seduti capeggiati da Pietro e Paolo.
La paternità di tale opera è a oggi ancora estremamente problematica, soprattutto alla luce dell’alta qualità della pittura e della temperatura culturale che l’affresco denuncia. Nel saggio del 1965, Carlo Volpe si esprime in merito alla questione attribuendo l’opera a un anonimo maestro indi denominato “Maestro dell’Arengo”, alla cui mano attribuisce anche il Crocifisso conservato nella stessa chiesa di Sant’Agostino e un trittico del Museo Correr di Venezia.
Al contrario di altri studiosi, Volpe afferma la completa individualità di questo artista rispetto ai coevi protagonisti del panorama locale e nazionale, pur riconoscendone il legame con Johannes, suo creditore forse di una prima iniziazione alle innovazioni giottesche. E forse furono proprio questi elementi mutuati da Giotto che, secondo lo storico dell’arte bolognese, avrebbero portato taluni critici ad assimilare la mano del Maestro dell’Arengo a quella del più noto Giovanni da Rimini. L’anonimo maestro, tuttavia, realizza in Sant’Agostino una più profonda variante personale del linguaggio giottesco, che risolve in una dimensione formale di astratta solennità, capacità di percezione epidermica, unione del colore con la pienezza dell’ambientazione luminosa. Un gusto, a detta di Volpe, tanto più sensitivo e umano rispetto a quello di Giovanni.
Dopo il contributo dello storico dell’arte bolognese, numerose furono le attribuzioni proposte per le opere di Sant’Agostino appena citate. Una delle voci a oggi più accreditate è quella di Miklós Boskovits, il quale, al contrario di Volpe, riconosce nell’artista lo stesso Giovanni da Rimini in una fase della sua carriera ormai inoltrata, verso la metà del secondo decennio del secolo. Anche Daniele Benati appoggia questa attribuzione, argomentandola con una brillante analisi formale volta a evidenziare la continuità dell’equilibrio di componente filo-bizantina e adesione alle novità giottesche presenti nel Cristo della Discesa al Limbo di Johannes tanto quanto nel magnifico affresco del Giudizio Universale, ormai assimilato alla sua mano.